Premio “Alabarda d’oro”

Premio Alabarda d’oro – “Città di Trieste” Festival del Cinema,Teatro e Letteratura 4. Edizione – Anno 2010 La 4. edizione del Festival si svolgerà dal 9 al 12 giugno 2010, diretta da Mauro Caputo e Federica Crevatin. Il programma ufficiale sarà annunciato nel corso di una conferenza stampa che si terrà a fine febbraio. Per la 4. edizione il Maestro Mario Monicelli sarà il Presidente Onorario della Giuria. Tra le finaliste troviamo la nostra grande amica e scrittrice Barbara Bolzan. Ricordo che l’anno scorso questo premio lo vinse Camilleri per la letteratura e Monicelli per il cinema. 

 La premiazione sarà a Trieste, nel bellissimo teatro Tripcovich, il 12 giugno. Sarebbe bello se si riuscisse ad andare ad applaudire Barbara.

Nadia

Published in: Senza categoria on 20 Maggio 2010 at 14:12  Comments (3)  
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Barbara Bolzan – Bolle d’aria in superficie

Avevo scelto il silenzio. Dopo anni trascorsi a redigere articoli, a prendere la parola dietro un tavolo conferenze, a parlare con la gente che ogni giorno si trova a vivere un’esistenza simile alla mia, a sentirmi dire Grazie per quello che hai scritto, ad oppormi agli increduli, agli scettici, a chi si rimpinza di pregiudizi, ad oppormi perfino ai film che mostrano una realtà distorta dell’epilessia (film che si dividono in due categorie: pellicole al confronto delle quali L’Esorcista è un film per bambini, e pellicole vissero-tutti-felici-e-contenti nelle quali mancano solo Bambi e Tippete), avevo scelto il silenzio. Polemica!, mi aveva accusato qualcuno. Indisponente! Va bene, ammetto che le polemiche siano il mio pane perchè, quando mi ci metto, le faccio anche sui ravioli in brodo. Indisponente, va bene, perché su certi argomenti non mi vergogno ad andare giù dura con la finezza che mi è propria, cioè come una Carla Fracci che balli La morte del cigno con gli anfibi ai piedi. Ma a tutto c’è un limite. E, da un certo momento in poi, ho risposto col silenzio. Il che, dal mio punto di vista, non significava arrendersi, ma semplicemente lasciare che chi aveva fiato da sprecare finisse di berciare e si trovasse un’altra Giovanna d’Arco da mandare al rogo.

Oggi, l’indisponente, la polemica, la Fracci con gli anfibi, torna ad aprire bocca. Perché non è cambiato niente. Epilessia: nasconderla non serve, curarla sì, recitano dei manifesti che ho visto in metropolitana e che mi hanno strappato una smorfia. C’è sempre qualcuno che non riesce a parlare, che si nasconde in preda alla vergogna, che chiede Per favore, che mormora Scusa dopo una crisi, che piange da solo. Che si sente ed è solo.

Raccontare la mia esperienza. Che cos’è un’esperienza, in fondo? Un bagaglio del vissuto, qualcosa di cui hai fatto tesoro e dal quale hai tratto un insegnamento.

Ci sono notti pesanti e risvegli faticosi, stralci di un passato che, come bolle d’aria, risalgono un acquitrino e scoppiano in superficie. Non sono le crisi in sé, per quanto mi riguarda, né le difficoltà quotidiane con le quali sono –siamo- costretti a fare i conti. Piuttosto, immagini, volti, il parchetto nel quale mi ritrovavo con gli amici. Una granita alla menta e lo stralcio di una canzone metal che il mio fidanzatino di allora suonava alla chitarra elettrica. Una vaschetta di patatine fritte e le luci della città guardate dall’alto di una collina. La serenità e la felicità e l’amicizia che ero certa sarebbe durata per sempre.

Ci sono però anche altre bolle, non sono tanto ipocrita da negarlo. La volta che ho aperto gli occhi ed ero sdraiata a terra dopo la prima convulsione. Le gite scolastiche alle quali non ho partecipato ed un liceo dal quale sono stata invitata ad andarmene perché con quelle “crisi” disturbavo il regolare svolgimento delle lezioni. Camerate a tre o a quattro letti, i due anni –nessuno saprà mai spiegare quanto sappiano essere lunghi due anni- che ho vissuto rimbalzando da una diagnosi all’altra –e a rileggerle adesso, quelle diagnosi, non so se definirle ridicole o grottesche o atroci come uno sberleffo ai danni di un bambino-, ognuna delle quali non era che una monetina lanciata in aria. Testa o croce. Il dolore e la confusione di una sedicenne che ha visto cose che nessun ragazzo di quell’età dovrebbe vedere. La serie quasi interminabile di ricoveri, il motociclista che è arrivato in pronto soccorso col cranio fracassato e la donna che è morta nel letto accanto al mio.

La bolla maggiore, quindi, non è l’epilessia in sé (assenze, convulsioni, occhiali rotti, muscoli ko, farmaci, visite, esami e tutto il resto). È il corollario che ha accompagnato il suo insorgere. È il vuoto umano che si crea attorno a te quando cadi a terra e chi ti è accanto realizza, per chissà quale meravigliosa epifania del pensiero, che costituisci una responsabilità troppo grande da accollarsi. Le spalle voltate di chi amavi e che giurava di amarti. Ed è una primavera ed un’estate che ho visto nascere, trascorrere e trasformarsi in autunno dall’alto di un finestrone di ospedale.

Per questo ci sono notti pesanti. Perché ho visto la gente “normale” guardare con paura e sospetto le persone affette da questa patologia; ho visto sorrisi di compassione e ho ascoltato frasi offensive che lasciano il segno come carta vetrata passata sulla pelle. Adesso non può che dispiacermi per quelle persone. Perché, se la loro memoria fa difetto, la mia invece è di ferro.

Tutte quelle bolle d’aria messe insieme facevano a pugni con la mia grammatica di relazione tra esseri umani. Allora, un giorno, ho cominciato a scrivere parole che poi qualcuno ha stampato (Sulle Scale, ed. AICE, Bologna, 2003). Istinto, inchiostro intriso di rabbia e rivalsa di una ragazzina che, come una foglia morta portata dal vento, si è scontrata con troppe correnti d’aria contrastanti prima di approdare finalmente ad una diagnosi che ha spazzato via l’incertezza. Ero arrabbiata. Perché c’era ancora chi non voleva arrendersi all’evidenza, nemmeno quando gli sono stati sbattuti sotto il naso chili di referti che riportavano la parola “epilessia”. Arrabbiata perché quella persona indossava un camice bianco, ed il cui scopo nella vita sembrava essere il rendermi l’esistenza più difficile di quanto già non fosse, marchiando le mie crisi come le paturnie di una ragazzina che finge (?) di star male semplicemente per saltare le interrogazioni a scuola. E quando altre schiere di medici hanno metaforicamente scoperchiato la mia testa e ci hanno guardato dentro, be’, nemmeno allora quell’esimio Camice ha cambiato idea. Mi dicevo: ma nemmeno davanti all’evidenza? Perfino Galileo ritrattò, quando capì che stavano facendo sul serio! E c’è da considerare il fatto che lui fosse pure nel giusto! Tu che hai torto marcio, perché non lo ammetti? Anche una volta sola, sottovoce. Ma fallo! Non lo fece mai.

Sulle Scale era un testo scritto sommariamente di getto. Quindi, ora lo riconosco, impreciso in molti punti. Jeunesse oblige. Un testo dal quale, una volta pubblicato, ho preso le distanze.

Ho lasciato trascorrere gli anni. Ho letto, ho studiato, ho lavorato, ho pubblicato un nuovo romanzo ed articoli che più nulla c’entravano con quanto accaduto nel mio passato.

Ma le bolle d’aria che per tanto tempo avevano lasciato in pace lo stagno, un bel giorno hanno deciso di risalire ancora una volta alla superficie. E mi sono accorta che il discorso era rimasto in sospeso. C’erano troppe cose non dette. Troppe cose che –avevo giurato un tempo- non scriverò mai sui giornali.

Così, sono tornata sui miei passi. Ho acceso il computer. E ho digitato poche parole. L’età più bella. Da questo semplice titolo è nato un libro diverso dal primo, benché tratti ancora di quel periodo. Non più un’esperienza imprecisa come una fotografia sovraesposta, non più un grido di rabbia e di dolore fine a se stesso. Un romanzo, invece, aperto sul mondo dei giovani in toto, quello che nessun adulto riuscirà più a penetrare perché ha dimenticato quell’età e le difficoltà di essere adolescenti. La storia di una ragazza normale, con i suoi sogni, la sua musica, i suoi amori, la scuola, le certezze. Un mondo a tutto tondo che, improvvisamente, viene scosso dalle fondamenta dall’insorgere della prima crisi. Ma che continua a girare. Nonostante tutto e tutti. Una favola semplice, rivolta tanto ai ragazzi normali quanto a quelli che hanno vissuto o vivono quello che possono definire “calvario”, alle loro famiglie, agli insegnanti, ai medici. A tutti coloro che guardano gli adolescenti e vivono a contatto con loro. Un linguaggio chiaro, diretto, ironico, scevro di sterili tecnicismi. Un tu per tu nel quale chiunque può ritrovarsi. Epilettico e non. Non un’autobiografia, come troppe volte erroneamente è stata definita la prima imprecisa versione, ma un’esistenza che in molti si trovano ad affrontare.

L’adolescenza. L’età più bella.

Il tragico, il ridicolo, il grottesco è che gli epilettici non fanno più notizia dai tempi in cui Alessandro Magno e Giulio Cesare hanno conquistato mezzo mondo (un quarto a testa). Le case editrici alzano le spalle davanti ad un testo che tratta della patologia che viene oggi presa in esame e si ritaglia qui uno spazio. L’anoressia fa vendere copie. La droga produce una prima, una seconda, una sesta, una decima edizione. L’età più bella rimane nel cassetto. Noi, tutti noi, ancora una volta, siamo relegati dietro le quinte. Senza voce. Perché, nonostante tutto, anche se ogni volta mi appiglio alle illusioni, le grida possono essere imbavagliate. Eccome. Quindi, è inutile poi affiggere i manifesti del nasconderla non serve, curarla sì, o domandarsi perché questa malattia sia guardata con sospetto, scambiata per sinonimo di isteria, nevrosi o schizofrenia. Ed è inutile stupirci se la gente, in un modo o nell’altro, continua a prendere le distanze dai soggetti epilettici. Ciò che non si conosce incute, nel migliore dei casi, indifferenza. Nel peggiore, paura.

Eppure, ci siamo anche noi. Noi, che non facciamo notizia. E che continuiamo a fare i conti con le bolle d’aria dello stagno, senza poter spiegare a chi ha voglia di leggere e ascoltare che forse, forse, qualcosa da dire, da imparare e, perché no?, da insegnare, lo abbiamo anche noi.

Barbara Bolzan

Published in: Senza categoria on 19 Maggio 2010 at 08:57  Lascia un commento  
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